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Alessandro, soccorritore a bordo di Ocean Viking ci racconta, in questo suo diario di bordo, l’ultima missione della Ocean Viking. Da quarantena a quarantena. Dall’isolamento a Marsiglia a quello nel porto di Augusta. Ma in mezzo c’è il mare, la vita e la salvezza.

PARTENZA 

Dici Capodanno a Marsiglia e ti immagini le cose in modo diverso da come sono andate. Pensi ai colori, alla folla, alla musica di una città magica. Questa invece è una ricorrenza in quarantena, misura di auto-controllo prima di imbarcare sulla Ocean Viking. Arriviamo in Francia poco dopo Natale e della città vediamo l’aeroporto e un albergo. Neanche in centro, uno lontano dalle piazze e dal rumore. Palazzone di sette piani e trecento stanze. Ognuno di noi, siamo 22, a occupare un appartamento. Letto, computer, bagno e cucina. Ci teniamo in contatto con un calendario di appuntamenti online e riunioni, è tempo per studiare i protocolli e parlare la stessa lingua. Operativa. 

Dieci giorni passano in fretta, senza lasciare troppi ricordi. Facciamo scorta di film, libri e musica: una volta in nave internet sarà un bene prezioso, la imbottigliamo per i momenti di scarsità. 

Il team arriva da mezza Europa e anche da più lontano. Ci vediamo finalmente negli occhi una volta a bordo, in un angolo remoto del porto. Compagni di viaggio solo i gabbiani e una barca a vela che ci scorta mentre prendiamo il largo. Corsica e Sardegna ci fanno da riparo contro il mistral: soffia forte, troppo, qualche traghetto viene dirottato perché il mare diventa tridimensionale. Coni e trapezi d’acqua ci tengono fermi per qualche giorno. 

PRIMO SOCCORSO 

Calato il vento arriviamo nella SAR zone, entità statistica fatta di numeri e coordinate: soccorsi, incidenti, dispersi in mare. La Libia è ancora lontana ma si annuncia con sbuffi di fuoco dei pozzi petroliferi offshore. 

All’inizio sono solo delle tracce sul radar, o dei puntini che scompaiono all’orizzonte. Poi li vedi con il binocolo, e agitano braccia, teste, forme. Spesso capita di notte, e sono macchie verdi nei visori infrarossi. Quando li vedi, non stai nella pelle per avvicinarti con il gommone, e dire loro “siete salvi“, ma devi essere prudente, coordinato: ogni passo falso può essere una persona che muore in mare. 

Succede ancora: sul ponte a cercare, e dopo mezz’ora in acqua a tendere mani. Davanti a noi gommoni che non dovrebbero prendere il mare, carichi di un’umanità in fuga e che accetta il rischio del Mediterraneo perché non ha alternative. Li abbiamo soccorsi all’alba e poi ancora nella notte, un gommone dopo l’altro. Da vicino vedi il popolo precario di queste barchette di carta: sono giovani uomini, donne e tantissimi bambini. Una volta fatti i conti, quasi metà sono minori non accompagnati, due donne incinte, vari neonati. Il più giovane ha solo un mese di vita, è più piccolo di qualsiasi nostro giubbotto salvagente, sembra annegare nel tessuto arancione che gli salva la vita.  

Dopo quattro soccorsi – uno con vento forte e onde alte – abbiamo a bordo oltre 370 persone. Una donna incinta viene evacuata per motivi medici, un ragazzo sequestrato dalle milizie ha la gamba fratturata, altri cercano di ricongiungersi a mogli e cugini già in Europa. Stanno qualche giorno con noi, e molti non stanno bene. Mal di mare, pioggia, il freddo delle notti di gennaio. 

Sono alla mia nona missione, dovrei essere abituato, ma mi accorgo di non esserlo.  

Troppa umanità che si stringe sul ponte, troppe bocche e occhi e braccia che dicono, chiedono, raccontano. Una Babilonia temporanea e struggente, in cui si alternano canti di gioia e accessi di angoscia. 

Li sbarchiamo ad Augusta, esausti loro e anche noi. Gli ultimi a scendere intonano un coro, potente, che fa venire la pelle d’oca.  

Faccio tradurre, il senso è: tornate in mare, salvate i nostri fratelli. 

SECONDO SOCCORSO
Dopo dieci giorni riprendiamo le operazioni. Stesso luogo, il Mediterraneo conosciuto come il cortile di casa, popolato da persone con destini troppo simili. 

Immaginate i naufraghi che cantano la loro salvezza sul ponte di una nave. Uomini, donne e neonati, ma soprattutto minori che viaggiano da soli e si scoprono adulti fra una prigione in Libia e una notte in gommone in mezzo al mare. 

Così è la Ocean Viking dopo due giorni di soccorsi. Siamo fisicamente stanchi perché abbiamo dato tutto: le ore di sonno, intere giornate sul gommone, turni in clinica e a ripulire, l’adrenalina e l’attesa, gli occhi che bruciano incollati al binocolo. 

Giorni di quiete e momenti febbrili si alternano, come se strappare anche solo una persona dal mare fosse un concentrato delle nostre vite: settimane di preparazione per un momento. 

Quando afferro quei polsi, trascinando corpi dall’acqua al nostro gommone, sento sempre una consistenza diversa. Forza, fragilità, timidezza, vergogna e molto altro che non saprei dire si mescolano in un contatto, il tempo per chiedere non c’è, bisogna intuire e passare al prossimo. 

In questi giorni di insolito mare calmo sono partite varie centinaia di persone, più giusto contare a migliaia. Molti intercettati e riportati in Libia, qualcuno salvato da noi, qualcuno forse morto. La fragilità di quelle barche è tessuta di tempo precario, che scorre veloce, e la differenza fra chi sopravvive e chi no, si misura in minuti, in manciate di fortuna. 

NOTTE 

Mediterraneo, esterno notte. Febbraio, inverno.  

Sulla Ocean Viking convivono 422 persone, alcune letteralmente ripescate in mare. Due se l’è portate via un elicottero maltese, marito e moglie, lei gravemente malata. 

I primi ad essere soccorsi dormono in quello che chiamiamo ‘shelter‘, il rifugio. È la nostra prima classe: pavimento di legno, pareti di ferro, e radiatori al soffitto. Niente materassi, qualche fortunato dorme sul cartone. 

Gli ultimi arrivati si sistemano all’aperto, riparati da un telo anti pioggia o con vista sul Gran Carro. Chi pensa al passaggio ponte dei traghetti per le vacanze sbaglia in eccesso. Qui è una distesa di sacchi di plastica spessi, con dentro esseri umani. Le persone dormono imbustate come carote. Fra un corpo e l’altro non c’è neanche lo spazio per camminare. Per spostarci, abbiamo teso delle funi e sembriamo degli equilibristi appesi per le braccia. Di notte il ponte non si percorre, si scala, è un passaggio verticale a evitare dita, gomiti e nasi. 

Mi sono chiesto più volte come dormono le persone che abbiamo soccorso. Per capirlo, una volta ho fatto ricorso al metodo scientifico. Mi sono impacchettato nelle sacche di polietilene arancione, trovando una fessura fra due naufraghi. L’esperimento ha rivelato con chiarezza la scomodità e soprattutto il freddo. Intimità forzata e legno duro. Soluzione che dovrebbe essere temporanea e che la politica spesso fa lievitare da ore a settimane. Il corpo reclama una doccia e una colazione pigra e abbondante. Lussi che non trovi facilmente su una nave ambulanza, e che certo scarseggiano quando le notti all’aperto si accumulano. Una, due, tre, a volte sette, quattordici, in una fila di attese impossibili. Riconosco la resilienza dei nostri naufraghi, che un mattino dopo l’altro si accendono di speranza. 

SBARCO
Augusta non è un luogo in cui vado volentieri, il suo porto commerciale è industria pura e dura – montagne di rottami di ferro, colline di zolfo, blocchi di cemento come palazzi – ma questa volta ci arrivo affannato e colmo di gratitudine. 

La Ocean Viking stava preparandosi alla pioggia in arrivo, montando teli per proteggere le persone sul ponte, quando ci hanno concesso il porto di sbarco. 

Sollievo, sentimento cauto e incredulo, ma per cosa? Per un atto dovuto, come dare da bere agli assetati, regolato da leggi internazionali, a lungo negato e ritardato. Mi è capitato spesso: stare settimane con naufraghi a bordo, in attesa di un porto. 

Per fortuna non è successo questa volta, quando l’attesa era caricata da una preoccupazione in più, 8 persone positive al Covid. Isolate, ma pur sempre sulla stessa barca di 69 metri. Naufraghi e soccorritori, positivi e negativi, mille modi per dire “noi e loro” e mettere una distanza che non c’è. 

L’annuncio del porto di sbarco è sempre motivo di festa, canti e balli si levano al cielo. Questa volta non abbiamo potuto partecipare, resi cauti dai protocolli di prevenzione. Sorrido dietro la mascherina, e mi chiedo cosa rimarrà di quella gioia entro pochi giorni. 

La prova arriva di notte, ancorati in rada ma con la pioggia che arriva puntuale, annunciata dal vento forte. E poi mattino successivo, in banchina, nella lunga attesa dei tamponi e del foto-segnalamento per tutti. 

Dopo un giorno di sbarchi, restano a bordo 79 persone. È di nuovo notte e la macchina amministrativa si ferma. Metà di loro sono risultati positivi, e vivono la notizia rivelando lo spavento. Vedo muscoli tesi, mascelle che tremano, donne in lacrime, incomprensione. Finalmente reazioni nuovamente umane, il lusso di avere paura e di poterlo raccontare a qualcuno. Quello che noi chiamiamo soccorso – ma che per molti è un viaggio verso l’incerto – termina il pomeriggio successivo con lo sbarco di tutti. Improvvisamente vuota, la nave riecheggia delle voci e dei silenzi dei sopravvissuti. 

TITOLI DI CODA 

Vivere e lavorare in nave è un esercizio di pazienza. Finita la missione non è che puoi semplicemente salutare e scendere, ci sono tempi tecnici. A questo giro, dilatati senza chiari limiti. Siamo in quarantena così come le persone che abbiamo soccorso. Loro su un traghetto gestito dalla Croce Rossa, noi sulla Ocean Viking. Ci vediamo da lontano, in due posti diversi del porto, entrambe le navi all’ancora. La corrente e il vento ci fanno disegnare circonferenze, giriamo in tondo come criceti. Nei giorni di sole teniamo d’occhio l’Etna innevato che scorre a destra e a sinistra. Di notte ne percepiamo i lampi e gli sbuffi di lava. L’attesa a bordo viene messa a frutto, ci sono sempre lavori e manutenzioni. Ordini da fare, soluzioni da trovare, riparazioni. E verniciare, verniciare. Sembra che le navi siano tenute assieme dalla pittura.  

In un pomeriggio di sconforto chiedo al mediatore culturale di ricordarmi cosa ci facciamo qui. Lontani da casa e dagli affetti per mesi, metà vita che passa fra cime e lamiere. Illuminami Riad, riportami al senso. Lo guariremo mai, questo mondo? 

Facciamo quello che è giusto fare. Là fuori c’è gente lasciata sola ad affogare. L’Europa non muove un dito. In Libia la gente viene ammazzata e stuprata. A me che parlo arabo queste cose le raccontano. Vai dalla dottoressa, chiedile dei segni di tortura sui corpi”. 

Mentre lo dice, sul telefono mi arriva la notizia dell’ennesimo naufragio. Un corpo ritrovato, 22 dispersi, qualche sopravvissuto. A sud, a un giorno di navigazione da noi. 

 Le foto in quest’articolo sono state scattate durante le missioni di gennaio da Fabian Mondl e Hippolyte per SOS MEDITERRANEE

Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.