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La seguente pubblicazione di SOS MEDITERRANEE intende far luce sugli eventi che si sono verificati nel Mediterraneo centrale nelle ultime due settimane. «Sguardo sul Mediterraneo» non è inteso come un aggiornamento esaustivo, ma si propone di trattare le questioni relative alla ricerca e soccorso che si verificano nell’area in cui operiamo dal 2016, sulla base di rapporti di diverse ONG, organizzazioni internazionali e articoli dalla stampa internazionale.

Oltre 11.000 persone sono state forzatamente riportate in Libia dall’inizio dell’anno, più che durante tutto il 2019

Un ennesimo naufragio è accaduto il 10 novembre scorso al largo delle coste libiche: almeno 13 persone, tra cui tre donne e un bambino, risultano disperse, probabilmente annegate, dopo che la loro imbarcazione si è rovesciata; è uno solo il cadavere recuperato finora. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), 11 sopravvissuti sono stati riportati in Libia dalla sedicente guardia costiera libica. Intanto, al largo delle coste libiche, si continuano a recuperare corpi: tre cadaveri sono stati ripescati il 9 novembre secondo l’OIM e uno il 30 ottobre scorso .

Dall’inizio dell’anno, sono 11.356 le persone che hanno cercato di fuggire dalla Libia e sono state intercettate in mare e forzatamente riportate nel paese, secondo l’OIM. Questo tremendo bilancio supera il totale delle persone respinte in Libia in tutto il 2019 (9.925). In sole due settimane, infatti, l’OIM segnala che 1.400 donne, bambini e uomini sono stati intercettati in mare e riportati con la forza in Libia, tra cui 1.000 solamente nei primi tre giorni di novembre. La maggior parte di loro finisce nei famigerati centri di detenzione dove le Nazione Unite e le organizzazioni di difesa dei diritti umani, da anni documentano abusi e torture.

«In assenza di azioni concrete da parte degli Stati in materia di Ricerca e Soccorso, assegnazione d un porto sicuro e prevedibile e solidarietà, sempre più persone vengono riportate a situazioni di sfruttamento e abuso», ha dichiarato Federico Soda, capo missione dell’OIM in Libia.

Appena tornata operativa nel Mediterraneo centrale, la Open Arms effettua subito un soccorso: una presenza cruciale, mentre le altre 7 navi di soccorso delle ONG sono ancora bloccate dalle autorità

La nave Open Arms della Ong spagnola Proactiva-Open Arms ha lasciato il porto di Barcellona il 4 novembre scorso, per riprendere la sua missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Sei giorni dopo, la nave ha soccorso 88 persone, tra cui due donne incinte, da un gommone parzialmente sgonfio in pericolo. Il giorno precedente, l’equipaggio aveva cercato a lungo un altro gommone in difficoltà, che andava alla deriva con circa 60 persone a bordo. I membri dell’equipaggio di Open Arms sono stati informati successivamente che il gommone era stato intercettato dalla Guardia costiera libica, prima che l’Ong potesse raggiungere l’ultima posizione segnalata. Durante la stessa missione l’equipaggio ha trovato anche i resti di una imbarcazione di legno affondata, senza nessuno a bordo, e uno zaino che galleggiava in mare.

Le altre sette navi umanitarie che operano di solito nel Mediterraneo centrale (Alan Kurdi, Sea Watch 3, Sea Watch 4, Mare Jonio, Ocean Viking, Louise Michel, Aita Mari), invece, sono ancora impossibilitate a svolgere la loro missione di soccorso in mare, a causa dei blocchi amministrativi che le hanno colpite. Alla fine di ottobre, per la terza volta dal 14 settembre, a due membri dell’equipaggio dell’ONG Mediterranea Saving Humans è stato negato l’imbarco sulla Mare Jonio dalle autorità portuali italiane ad Augusta, in Sicilia. Questa decisione di fatto impedisce alla nave di effettuare la sua missione di soccorso nel Mediterraneo centrale.

Alla luce di questa situazione, la presenza della nave di Open Arms è cruciale perché la società civile europea continui a salvare vite, a testimoniare e ad informare e venir informata su quanto sta accadendo nella vasta zona marittima al largo della Libia.

 

«Non luogo a procedere» per la nave Open Arms

Lo stesso giorno del ritorno in mare di Open Arms, due membri dell’ONG spagnola, l’ex comandante e il capo missione, sono stati scagionati dalle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violenza privata dal tribunale di Ragusa. A seguito di un’udienza preliminare, il tribunale ha deciso di “non procedere” con l’indagine, considerando che non vi erano elementi idonei a costituire il reato di violenza privata e che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non è punibile per “stato di necessità“. In altre parole, impossibile processare l’Ong per aver messo in salvo persone la cui vita era a rischio. I due membri di Proactiva-Open Arms erano stati accusati a seguito di un’operazione che aveva portato al soccorso di 218 persone, condotta nel marzo 2018 sotto il coordinamento delle autorità italiane. L’equipaggio aveva rifiutato di seguire le istruzioni e consentire alla sedicente guardia costiera libica di prendere il controllo del completamento dell’operazione SAR, in virtù dell’impossibilità di considerare la Libia un porto sicuro.

Questa decisione è un segnale positivo per chi, come noi, effettua soccorso in mare, poiché riconosce che l’azione delle Ong umanitarie è dettata dal rispetto delle Convenzioni internazionali e del diritto del mare e rappresenta un più ampio riconoscimento dell’inviolabilità dei principi del diritto marittimo e del dovere di soccorrere vite umane in mare, stabilendo che non si tratta di principi applicabili a discrezione, a seconda delle situazioni.

Evitato un tragico naufragio al largo di Lampedusa, mentre continuano le rischiose traversate nel Mediterraneo centrale

Dal nostro ultimo “Sguardo sul Mediterraneo“, quasi 3.000 persone sono arrivate in Italia via mare, secondo i dati dell’UNCHR. All’inizio del mese, è stato osservato un netto aumento degli arrivi a Lampedusa, con quasi 2.000 persone arrivate sull’isola tra l’1 e il 6 novembre. Un tragico naufragio è stato evitato per poco il 4 novembre, quando un gommone che trasportava circa un centinaio di persone, tra cui donne e bambini, è finito contro uno scoglio.

Con questi arrivi, l’hotspot di Lampedusa ha drasticamente superato la sua capacità massima di 192 posti, arrivando ad ospitare fino a 1.350 persone nelle ultime due settimane. Proseguono i trasferimenti sulle navi quarantena, e nei giorni scorsi quasi 900 sopravvissuti sono stati trasferiti a bordo delle navi Allegra e Rhapsody. Prima di questi trasferimenti, nell’ultimo fine settimana di ottobre, secondo il giornalista Sergio Scandura e il media locale Fanpage, 9 persone avrebbero compiuto atti di autolesionismo a bordo della nave quarantena Rhapsody, ingerendo lame di rasoio e frammenti di vetro. Tutte queste persone sono di conseguenza state trasferite negli ospedali di Palermo per fornire loro le cure adeguate.

Dall’altra parte del Mediterraneo centrale, almeno 172 persone sono state salvate dalla Guardia costiera tunisina nelle ultime due settimane. Come riferito dall’agenzia di stampa francese AFP, il 7 novembre scorso 28 persone sono state soccorse al largo delle isole Kerkennah. Appena quattro giorni prima, secondo un membro del parlamento tunisino, la Guardia costiera tunisina aveva tratto in salvo 31 persone a bordo di un’imbarcazione partita dalla Libia. Il 26 ottobre è stato evitato anche un ulteriore, tragico, naufragio: secondo i media locali, la marina e la guardia costiera tunisine hanno salvato 113 persone, tra cui 9 bambini, al largo di Sfax, che si trovavano a bordo di una imbarcazione che si stava già riempiendo d’acqua.

I sopravvissuti della “tragedia di aprile” presentano un’azione legale contro Malta

Cinquanta richiedenti asilo, forzatamente riportati in Libia lo scorso aprile, insieme a due fratelli di persone che hanno perso la vita in mare, hanno intentato un procedimento costituzionale contro il governo maltese, chiedendo giustizia per quello che considerano un soccorso ritardato e un respingimento coordinato dalle forze armate di Malta. In questo dossier, sostenuto dall’organizzazione maltese per i diritti civili Repubblika, sostengono che 50 dei querelanti erano a bordo di una imbarcazione in pericolo, avvistata da un aereo Frontex nella zona di ricerca e salvataggio maltese tre giorni prima che le autorità maltesi delegassero il suo salvataggio al peschereccio privato “Dar As-Salam”; a quel punto, diverse persone erano già morte. I sopravvissuti sono stati poi respinti in Libia. Secondo Times of Malta, la procedura denuncia diverse violazioni dei diritti umani sanciti dalla Costituzione maltese, la Convenzione europea per i diritti umani (Cedu) e la Carta dei diritti umani fondamentali dell’Unione europea, tra cui trattamenti inumani e degradanti, espulsioni collettive, nonché violazioni del diritto alla vita e del diritto di chiedere asilo.

Riapertura della rotta atlantica, dalle coste dell’Africa occidentale alla Spagna. Con il bilancio fatale di oltre 200 persone morte o disperse

Riprendendo la precedente edizione del nostro “Sguardo sul Mediterraneo“, continuiamo ad aprire un focus sulla rotta Atlantica e a raccontarvi gli ultimi sviluppi sulla rotta verso le Isole Canarie. Quasi 2.000 persone sono arrivate sulle isole spagnole, a bordo di circa 40 imbarcazioni, solo nell’ultimo fine settimana. Una persona deceduta è stata trovata su una imbarcazione con circa 160 persone a bordo, molte delle quali soffrivano di disidratazione acuta.

Nei dieci giorni precedenti, diverse centinaia di persone sono arrivate alle Isole Canarie, alle Baleari e nel sud della Spagna. Ma spesso con tristissime scoperte a bordo : almeno due corpi sono stati recuperati da imbarcazioni arrivate sulle coste spagnole. Una persona è stata trovata morta su una imbarcazione soccorsa vicino a Gran Canaria da Salvamento Marítimo e dalla Guardia Civile spagnola il 2 novembre ; mentre il 4 novembre una imbarcazione è stata soccorsa a sud di Tenerife, con 72 persone a bordo, tra cui una persona deceduta e tre persone in precarie condizioni di salute. Secondo le testimonianze, i naufraghi erano stati in mare per dieci giorni, dopo la partenza dal Senegal.

Nel mare Atlantico, sulla rotta occidentale verso le isole Canarie, gli attraversamenti sono rischiosissimi, soprattutto in questa stagione: il mese di ottobre è stato particolarmente letale, con due immani naufragi e quasi 200 persone annegate. È ormai accertato che almeno 140 persone abbiano perso la vita il 24 ottobre scorso, in quello che l’OIM ha definito il “naufragio più letale dell’anno“, quando una imbarcazione che trasportava circa 200 migranti è affondata al largo della costa senegalese (vedi il nostro Sguardo sul Mediterraneo). Mentre secondo le testimonianze di 27 sopravvissuti, oltre cinquanta persone sarebbero morte in un altro naufragio, al largo della costa mauritana. Tragica prova che si tenta di chiudere una rotta, come quella del Mediterraneo centrale, e se ne aprono di nuove, sempre più rischiose e letali.

Foto: Flavio Gasperini / SOS MEDITERRANEE

Il nostro “Sguardo” resta sul Mediterraneo. Per garantire testimonianza di quel che avviene nel Mediterraneo Centrale e per onorare i morti e i dispersi. Continuiamo a osservare e a raccontare.

Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.