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Intervista al giornalista Giacomo Zandonini, a bordo della nave Aquarius con la troupe del regista cinese Ai Weiwei per le riprese del docufilm Human Flow.

Oltre 65 milioni di abitanti del pianeta costretti a fuggire dalla propria terra per scampare a guerre, persecuzioni e violenze di ogni tipo, costantemente in bilico fra scoramento e speranza. È questa l’umanità dipinta dal regista Ai Weiwei nel suo documentario Human Flow, presentato alla 74a Mostra del Cinema di Venezia.

Human Flow offre uno sguardo sul flusso umano indistinto che, partendo da Paesi e continenti diversi, unisce idealmente l’Asia all’Europa e l’Africa all’America, in un unico grande percorso comune di spostamenti per raggiungere la salvezza.

Il documentario è un susseguirsi di esperienze, di ricordi e sogni che, in parte, anche SOS MEDITERRANEE ha collaborato a documentare perché i salvataggi nelle acque del Mar Mediterraneo sono stati girati a bordo dell’Aquarius. Dunque Human Flow ci congiunge idealmente alle generazioni di popoli che stanno attraversando frontiere, confini e barriere e ci consente di entrare nel cuore del lavoro di SOS MEDITERRANEE poiché a bordo della Aquarius possiamo toccare dal vivo e senza filtro l’empatia, la dignità e il rispetto con cui il SAR team opera a servizio degli ultimi.

A collaborare alle riprese con la troupe cinese Giacomo Zandonini, giornalista freelance, che si occupa di migrazioni, traffico di esseri umani, politica e società nel Sahel. Collaboratore di La Repubblica, Internazionale, Left, Women Under Siege, Radio Vaticana, Radio 24, Nigrizia, Redattore Sociale, Zandonini ha lavorato in Algeria, Bangladesh, Grecia, Italia, Niger, Sri Lanka, Tunisia. Nel 2016 ha collaborato al documentario Wallah – Je te jure, prodotto da OIM Niger.

Abbiamo chiesto a Giacomo, in navigazione sull’Aquarius a cavallo tra settembre e ottobre 2016 per effettuare delle riprese per Human Flow, di raccontarci come si è sviluppata la sua esperienza professionale e personale.

Come nasce il progetto di Human Flow e come hai contribuito a realizzarlo?

Il coinvolgimento in Human Flow nasce quasi per caso. Ero a Catania nell’aprile 2016 e stavo lavorando a reportage su questioni legate alle migrazioni in Sicilia, quando ho ricevuto una segnalazione da un giornalista americano che mi suggeriva di contattare una troupe cinese che stava girando in Sicilia sulle migrazioni ed aveva bisogno di indicazioni per riprese di sbarchi.
Il 25 aprile del 2016 c’erano stati ben due sbarchi, uno a Pozzallo e l’altro ad Augusta: ho chiesto l’autorizzazione per l’ingresso nei due porti e filmare. Dunque ho trasmesso loro le immagini e così ci siamo conosciuti. Ho scoperto in seguito che era la troupe del regista cinese Ai Weiwei e che c’era molto da fare, il loro programma “di lavoro” era infatti molto esteso. Le riprese da due giorni son diventate un mese: siamo stati tutto questo tempo in giro per tutta la Sicilia e al termine ci siamo trasferiti in Grecia ad Idomeni, perché nel frattempo era giunta la notizia dello sgombero del campo. A Idomeni ci siamo ricongiunti con la troupe dell’Ai Weiwei Film Studios che nel frattempo era già presente nel campo e stava riprendendo. Al termine del secondo mese di lavoro in Grecia, mi hanno chiesto di rimanere per filmare delle operazioni di soccorso: in questo modo ho contattato SOS MEDITERRANEE Italia e ho avuto la possibilità di salire a bordo dell’Aquarius tra settembre ed ottobre 2016.

Il progetto era iniziato da alcuni mesi, nel febbraio 2016, io sono subentrato nell’aprile: ho visto dunque una buona parte del progetto esteso. A bordo dell’Aquarius ho lavorato con un cameraman del film e uno dei direttori della fotografia. Abbiamo scelto di filmare con cinque telecamere: per effettuare riprese aeree abbiamo utilizzato un drone, al quale abbiamo accostato due telecamere fisse e due mobili per seguire i movimenti anche in acqua durante i soccorsi.

Molte riprese sono state girate a bordo di Aquarius. Ricordi dei passaggi particolari, qualche aneddoto legato a quei momenti?

Le riprese a bordo dell’Aquarius sono state un’esperienza molto intensa: da un punto di vista sia cinematografico che giornalistico è stato un ambiente favorevole in cui io e i colleghi ci siamo trovati benissimo. Il fatto di realizzare un lavoro di approfondimento, di tipo documentaristico e non di news rapide ha favorito il fatto che abbiamo puntato sulla durata, e dunque sullo sviluppo delle operazioni, e non sugli update quotidiani. Abbiamo fatto almeno cinque giorni senza nessuna operazione in mare che sono stati utilissimi da un punto di vista tecnico per testare tutti gli strumenti e fare delle prove delle riprese in un contesto molto particolare.
È stato fonte di arricchimento anche conoscere meglio i membri dell’equipaggio, entrare in sintonia con loro, capire le motivazioni che li avevano spinti ad aiutare: tutto era una “storia” da raccontare.
Si è creata una intesa sia con i profughi che con lo staff di SOS MEDITERRANEE e quello di MSF, con molti siamo rimasti in contatto.

Ricordo tantissimi momenti, uno dei quali appare anche nel trailer del film: c’è stato un grosso salvataggio di eritrei il 3 ottobre, molto lungo, di diverse ore, dalla notte fino a buona parte della mattinata, una barca in legno in cui erano presenti oltre 700 persone e tutte sono state portate sane e salve a bordo dell’Aquarius. All’epoca era un record di persone stipate, poi tale “tetto” è stato purtroppo superato, visto che in altri sbarchi il numero si è addirittura raddoppiato: In quella occasione furono tratti tutti in salvo. Dopo mesi trascorsi in un centro di detenzione queste persone erano state imbarcate già debolissime, ed ora erano allo stremo delle forze. Una volta a bordo, rifocillati con barrette e generi alimentari, in uno slancio liberatorio hanno incominciato a gioire, cantare, esultare quasi e c’era anche un pastore che recitava inni religiosi ortodossi. Era anche una giornata simbolica, il 3 ottobre. Mentre a terra si tenevano cerimonie per il ricordo del naufragio tremendo del 2013 in cui persero la vita più di 360 eritrei, veder celebrare questo momento di salvezza dopo tantissimi mesi di viaggio, è stato molto emozionante.

Cosa “ti sei portato a casa” tu, cosa ti è rimasto dell’esperienza vissuta a bordo della nave di SOS MEDITERRANEE

Nel mio bagaglio personale “porto a casa” tutte le esperienze e le relazioni con le persone del soccorso, durante la navigazione si instaurano velocemente legami forti. Quello della navigazione è un contesto molto particolare, perché piccolo, non si hanno molti punti di “fuga” pur essendo l’Aquarius una nave molto comoda. L’Aquarius volendo offre anche momenti di solitudine, di confronto con se stessi, perché è una nave ampia, consente l’occasione per condivisioni forti, quasi empatiche con i membri dell’equipaggio.
In termini di riprese ci siamo sentiti molto coinvolti: una volta effettuato lo sbarco dei migranti a Vibo Valentia abbiamo chiesto a tutti di condividere qualcosa, brevi interventi, stati d’animo, ansie e speranze. Nel film potevamo dedicare poco a questo spaccato emotivo dell’equipaggio, ma in quel momento ci sembrava davvero importante che restasse a memoria dell’impegno di SOS MEDITERRANEE.

Altra cosa che mi son portato è stata l’importanza di essere lì: conoscevo dai racconti delle persone incontrate sia in Italia che nelle zone di transito in Africa, esperienze di chi passando dalla Libia prendeva il mare, ma è diverso rendersi conto in prima persona di cosa significhi. Non eravamo presenti durante tutta la traversata ma filmando il momento dell’approdo, comunque ci si fa una idea molto realistica di cosa vive chi è costretto ad affidarsi al mare per scappare da contesti di guerre.

Oltre 65 milioni di profughi che si stanno spostando dall’Afghanistan a Lampedusa, dalla Turchia al Kenya, dal Messico all’Iraq. Questo ci fa ben comprendere che siamo davanti ad un vero e proprio esodo. Che senso ha parlare di “frontiere aperte” e “frontiere chiuse”, muri e divisioni, quando mari e oceani potrebbero essere elementi d’unione e raccordo tra gli individui? La vita sull’Aquarius di SOS MEDITERRANEE rende appieno l’idea di quanto i salvataggi nelle acque superino tali frontiere fisiche e mentali.

Le operazioni di salvataggio da parte delle Ong, nonostante la fatica di trovar posto in questo Mediterraneo sempre più chiuso, hanno dato un enorme messaggio e contributo all’Europa e ad una parte della cittadinanza europea e della società civile: tra le stesse Ong chi si è ritirato, chi ha cambiato area di intervento, ogni Ong attiva sul Mediterraneo ha fatto delle scelte, comunque è importante esserci. Le frontiere esistono, per qualcuno sono una condizione “sine qua non” delle democrazie, per altri andrebbero completamente abbattute. Nella vita quotidiana dobbiamo credere ad un mondo senza frontiere: la realtà è che tali barriere ci sono, ci saranno, ci sono notevoli spinte per rafforzarle e hanno delle conseguenze negative sia sul lungo periodo che nel brevissimo periodo influenzando, anzi condizionando, la vita delle persone, possono avere delle conseguenze terribili sulle persone stesse.

Personalmente non do una valutazione negativa dell’idea di frontiera: il limite è quando diventa un elemento di chiusura, dovrebbe esser chiaro che è anche un elemento di identità che si può attraversare, si può toccare, si può in qualche modo valorizzare. A bordo della nave Aquarius si sperimenta una comunità mobile di persone da tutto il mondo: c’è il marinaio del Ghana e dalle Filippine, il medico di MSF e le infermiere dal Canada, i volontari che arrivavano da mezza Europa, troupe di giornalisti da tutto il mondo. È un piccolo mondo in cui si sperimenta qualcosa di diverso e in cui entrano e son parte integrante le persone soccorse in mare.

Assistiamo a movimenti imponenti di persone. Secondo te come si fronteggia tutto questo? I corridoi umanitari sono un inizio.

Viviamo in un mondo in cui ci sono grandi movimenti di popolazioni. Inevitabilmente ci sono grandi conflitti, grandi disuguaglianze e questo porta a grandi sofferenze e rischi per chi li attua. Il titolo del documentario è emblematico: siamo davanti ad un flusso umano e come tale va visto non come nemici o fonte di rischi, problemi. Tra le possibili soluzioni penso ci sia il trovare delle modalità di ingresso reali e non rischiose per le persone, quindi attraverso visti, accordi che consentono ai cittadini dei diversi Paesi di circolare più facilmente all’interno dei territori e sicuramente l’Europa e i Paesi ricchi in termini di Pil e non necessariamente di altro, devono cambiare visione e impedire che si continui a morire.

I corridoi umanitari sono il segnale con cui è possibile ricordare ai nostri Stati che facilmente si possono trovare soluzioni: oggi questi corridoi hanno dei numeri limitati e sono dedicati a persone vulnerabili per diversi motivi, ma dovrebbero essere rivolti anche a persone che non hanno problemi di salute, ma che “vogliono muoversi” o “devono muoversi”.  Anche a loro bisogna dare risposta.

Intervista: Francesca Di Folco

Foto: Isabelle Serro / SOS MEDITERRANEE

Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.