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A bordo dell’Aquarius

Madeleine Habib, è la nuova Sar Coordinator a bordo della nave di salvataggio di SOS MEDITERRANEE. Dopo tre settimane di esercitazioni, Madeleine ha preso il comando dell’Aquarius, il 9 settembre 2017, diventando la prima donna Sar Coordinator dall’inizio della missione della nave nelle acque del Mediterraneo Centrale.

La zona SAR non rappresenta un contesto del tutto nuovo per lei. Nel 2015 e nel 2016 è stata capitano della Dignity I, una delle navi di salvataggio di Medici Senza Frontiere attive nel Mediterraneo Centrale. Prima di questa missione, Madeleine Habib ha navigato in tutto il mondo, a bordo di numerose imbarcazioni, coinvolte in diverse azioni.

In particolare, Madeleine ha lavorato per la nave di Green Peace per 15 anni, 3 dei quali come capitano; è stata responsabile logistico in Yemen per Medici Senza Frontiere; capitano durante un viaggio di studi sui vulcani sottomarini nelle isole Fiji e durante un viaggio nella Regione di Kimberly per lo studio della Corrente Leeuwin; come primo ufficiale e secondo ufficiale sulla nave Astrolabe, ha condotto la navigazione sino alla base francese Dumont Durville sulla costa orientale dell’Antartide e anche fino all’Isola Macquarie…ecc, ecc. Il suo curriculum è come la mappa del mondo. Ascoltare la storia di questa donna, che inizialmente ambiva alla carriera di giornalista per poi diventare capitano di navi impegnate nella salvaguardia di vite umane e del pianeta, accompagna l’ascoltatore in una sorta di tour del mondo.

Lara Garel e Hara Kaminara hanno avuto l’occasione di porle qualche domanda in un’insolita giornata di pace nel Mediterraneo Centrale.

Madeleine, vuoi parlarci del tuo rapporto con il mare?

Sono in mare da 30 anni, la prima volta avevo 22 anni, ed avevo già deciso di intraprendere la carriera da giornalista. Ho navigato per una settimana e mi sono sentita perfettamente a mio agio in quel contesto, non riuscivo a lasciare la nave e quindi mi sono detta “questa è la sfida che aspettavo”. Una sfida fisica e psicologica insieme, una sfida all’insegna dell’avventura. Ho preparato le valigie e mi sono imbarcata e 2 anni più tardi sono tornata a casa dalla mia famiglia dopo aver ottenuto il mio primo incarico da capitano, esattamente nel Nord del Queensland. La mia famiglia vive a tutt’oggi in Australia in un’aerea molto conosciuta, le “Isole Whitsunday”. Ho fatto visita ai miei genitori, che si erano appena trasferiti in quella zona, e ho approfittato di questa collocazione strategica per fare ciò che amavo: navigare.
Credo che ciascuno di noi abbia un rapporto molto personale con il mare, il mio è cambiato nel corso degli anni. Ho nostalgia del mare e quando ne risento il profumo, dopo un lungo periodo trascorso sulla terraferma, qualcosa dentro me si agita e mi sorprendo ogni volta perchè non mi rendo perfettamente conto di quanto davvero mi manchi il mare fino a che non ne percepisco il profumo, tutti i suoi profumi, delle calde acque tropicali come delle fredde acque antartiche. Non posso immaginare la mia vita senza il mare per il quale credo di avere un particolare senso dell’olfatto nel percepirne lo straordinario profumo. E mentre per altre persone il mare rappresenta la paura, l’ignoto, l’ostacolo, la barriera, al punto da odiarlo, per me rappresenta un luogo dove mi sento di risplendere.

Come mai hai deciso di lavorare in ambito umanitario?

Pur essendo molto soddisfatta del mio lavoro, sentivo che qualcosa mi mancava. E quindi mentre ero impegnata nella navigazione, contestualmente mi dedicavo al lavoro come volontaria nella realizzazione di progetti di giustizia sociale e di progetti a tutela dell’ambiente coltivando per anni il sogno di prestare servizio per Green Peace, sogno poi realizzato. In effetti per 15 anni ho lavorato su una nave di Green Peace, diventandone capitano, e ho partecipato a numerose campagne ambientali in giro per il mondo. Nel frattempo sentivo che c’erano altre cose delle quali avrei voluto occuparmi e perciò nel 2002 decisi di approfittare del periodo di ferie per prendere parte alla mia prima missione con Medici Senza Frontiere, riuscendo così a realizzare un’attività che non fosse soltanto a tutela dell’ambiente, ma anche a tutela dell’umanità, della giustizia sociale e del welfare. Questo è quello di cui mi occupo e sono contenta di dedicare il mio tempo alla realizzazione di questi progetti.

Cosa ti ha portato qui, a bordo dell’Aquarius, nel Mediterraneo Centrale, con SOS MEDITERRANEE?

La crisi dei migranti nel Mar Mediterraneo si dispiega ormai da anni, e il mio primo contatto con questa immane tragedia è avvenuto su una nave di Greenpeace. Nel corso di un’azione, bloccammo una nave intenta allo scarico di legname tagliato illegalmente in un porto del Portogallo. La reazione del capitano fu eccessiva. Solo più tardi ci rendemmo conto che a bordo della nave erano stivati tra i 20 e i 30 migranti e che quindi la reazione esagerata del capitano era dovuta al fatto che avevamo impedito la realizzazione del suo business: il traffico di migranti in Europa. Questo è stato il mio primo contatto con la crisi dei migranti e in quella circostanza ho pensato: “come sarebbe la tua vita se fossi costretto ad intraprendere quel viaggio, a fare una scelta simile?”. Nel 2015, nel pieno della crisi umanitaria, sono venuta a sapere che Medici Senza Frontiere si stava attivando per l’impiego di una nave nel Mediterraneo per affrontare quella tragedia umana e volevo a tutti i costi prendere parte a quella missione. Devo ammettere di avere avuto molta fortuna ad essere a bordo della nave Dignity I di MSF nel 2015 e nei primi mesi del 2016 e di essere stata parte di quel progetto. Mentre ero a bordo, mi sono resa conto che quel luogo necessitava di un ponte tra il mondo marittimo e il mondo umanitario, e ho pensato che io avrei potuto interpretare a pieno quel ruolo, data la mia esperienza marittima e umanitaria insieme, e quindi ho pensato che sarebbe stata una buona idea propormi come SAR Coordinator per SOS MEDITERRANEE a bordo dell’Aquarius, nel Mar Mediterraneo, per far fronte alla crisi migratoria, un ruolo perfetto per me.
All’inizio di quest’anno sono stata impegnata in vari corsi di formazione al fine di presentarmi al meglio nel mio ruolo di ponte tra i 2 mondi. Ho valutato diverse organizzazioni attive nel Mediterraneo, ma SOS MEDITERRANEE mi è sembrato il luogo perfetto, la giusta opportunità.

Come nasce il tuo interesse per la crisi migratoria nel Mar Mediterraneo?

La mia famiglia è una combinazione di nazionalità: mio padre egiziano, mia madre scozzese. Nei primi anni ‘60 mio padre ha lasciato l’Egitto per andare a vivere nel Regno Unito. Dopo il viaggio in aereo, ha richiesto e ottenuto asilo politico. Era un dottore qualificato e quindi a quei tempi era abbastanza semplice ottenere la protezione internazionale, anche se non ha mai acquisito la cittadinanza britannica ed è per questo che ho vissuto in prima persona il dramma di chi vive senza una cittadinanza e che quindi non gode di un riconoscimento effettivo da parte dello Stato ospitante. Ciononostante mio padre è stato fortunato. Negli ultimi anni anche il resto della mia famiglia è stata costretta a lasciare l’Egitto in quanto di religione copta e quindi parte di una minoranza perseguitata all’interno del Paese, al punto da renderne impossibile la permanenza.
La gente scappa dal proprio Paese d’origine per diverse ragioni. Non sono qui per giudicare. Nessuno a bordo dell’Aquarius è qui per giudicare. Ma la gente non lascia la propria casa senza una ragione valida. Noi salviamo vite umane, non giudichiamo chi scappa e perchè, semplicemente sappiamo che questa gente è qui per salvarsi la vita. Le imbarcazioni con cui affrontano il viaggio non sono il tipo di imbarcazioni che sceglieresti per intraprendere una traversata in mare se non fossi costretto, se non fosse per la disperazione, insomma questa gente non parte perchè può sembrare una buona idea lasciare il proprio Paese, questa gente parte perchè non ha altra scelta.
Credo nei diritti fondamentali dell’uomo, credo nel diritto di ciascuno a migliorare la propria esistenza, a cercare il massimo per sé e per la propria famiglia. Se sei nato in alcuni Paesi del mondo, devi affrontare ostacoli enormi per ottenere diritti che molti di noi considerano scontati.

Intervista di Laura Garel
Video di Hara Kaminara
Foto di Anthony Jean
Traduzione: Mariagrazia Pastore
Editing: Stefano Ferri

Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.