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Alice, Alice, ostretica MSF, racconta la sua esperienza a bordo della nave Aquarius

Una delle persone più eccezionali che ho incontrato a bordo è stata la 28enne Alice, l’ostetrica che lavora sull’Aquarius. È la seconda volta che lavora con Médecins sans Frontières (MSF) e dice che “sicuramente non sarà l’ultima”. “A volte mi sento come un’istruttrice di palestra. Ripeto ‘respira, respira’ continuamente. È la cosa che dice più spesso un’ostetrica”.

Nel 2016 Alice ha partecipato ad una missione di MSF in Congo. Durante i suoi studi a Londra ha lavorato in Etiopia. Alice, che è cresciuta in un piccolo villaggio nel sud della Francia, lavora come ostetrica da 5 anni. La vasta esperienza raccolta in paesi africani, dove le condizioni lavorative sono molto diverse da quelle degli ospedali di Londra, l’hanno aiutata a capire meglio le donne a bordo e a costruire facilmente relazioni con le sue protette nel breve periodo in cui le affianca.
Ho trascorso molte ore parlando con Alice ed aiutandola, era lei ad occuparsi di tutte le donne salvate ed accolte nel rifugio. Mi ha raccontato la sua esperienza durante le sue prime tre settimane di lavoro come ostetrica a bordo dell’Aquarius.

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Verena: “Ovviamente sono curiosa di sapere come funziona il lavoro di un’ostetrica a bordo. Deve essere molto diverso da quello in un ospedale, no?”
Alice: “Quando studi per diventare ostetrica nel Regno Unito, che è dove ho studiato io, la maggior parte della formazione ruota attorno al periodo della gravidanza. Ma una volta cominciato a lavorare per MSF, niente ti può preparare a quello che vivrai. MSF ha ampliato il ruolo dei compiti delle ostetriche fino ad includere più in generale la salute delle donne. Non si tratta solo del parto. Alcune di queste donne non hanno visto un dottore o un’ostetrica durante l’intera gravidanza. Arrivano a bordo con quest’enorme pancia e non hanno mai visto un professionista. Ma è un momento importante e voglio farle sentire speciali, voglio che il loro bambino sia speciale.”

Alice spiega che le donne spesso le dicono di essere incinte già durante la prima registrazione. Se non ne sono sicure, Alice gli fa fare un test di gravidanza e si assicura che la mamma e il bambino siano in buona salute, dopo tutto quello che hanno passato. Durante il salvataggio più recente, 120 donne rifugiate sono state ospitate a bordo. Non ho visto Alice sul ponte negli ultimi giorni, trascorre la maggior parte del suo tempo con “le sue signore”, come chiama affettuosamente le sopravvissute. Le visite iniziano di solito la mattina alle 9, nei giorni in cui ci sono rifugiati a bordo spesso Alice non finisce prima delle 8:30 di sera. Sono curiosa di saperne di più sulle sue giornate, soprattutto quelle dopo un grande salvataggio come quello di qualche giorno fa.

Verena: “Cosa ti aspettavi da questo lavoro quando hai deciso di unirti alla missione MSF?”
Alice: “Sinceramente, non sapevo cosa aspettarmi, finché non sono salita a bordo ed ho cominciato a lavorare. Una volta ho fatto 37 visite nel gira di un giorno e verso la fine della giornata ero distrutta. Una delle mie signore si accorse che avevo dimenticato di annotare la pressione del sangue e dovetti prendergliela di nuovo, allora mi disse: “Oh Alice, sei talmente stanca.” Sai, le mie signore si prendono cura di me. Come Jamila* che una volta mi chiese se quel giorno avevo mangiato, perché non mi aveva ancora vista fuori dalla clinica.”

Verena: “Mi chiedo, quanti dei test di gravidanza che hai fatto sono risultati positivi?”
Alice: “Delle 120 donne salite a bordo in seguito all’ultimo salvataggio, 22 hanno fatto il test e 20 di loro poi i regolari controlli della gravidanza. Sono triste perché due di loro sono rimaste incinte in seguito a stupri. (…) Di solito non faccio domande, soprattutto se sono ad uno stadio avanzato della gravidanza, perché sappiamo di non poter fare nulla al riguardo. Inoltre non ho la forza psicologica di aiutarle. Le 48 ore che trascorrono a bordo sono troppo brevi per iniziare una terapia, ma gli chiedo sempre se hanno subito violenze. Il problema è che un sacco di loro non associano lo stupro alla violenza. (…) Come Jamila(*), voleva fare un test di gravidanza solo perché era preoccupata di essere rimasta incinta senza essere sposata.”

Di solito Alice parla con le sue signore durante le visite, a volte condividono le loro storie. Spesso parlano di rapimenti, torture o morte dei loro mariti, eventi che le lasciano senza un posto in cui vivere. Solo a volte il cadavere viene riportato alla moglie.

Alice aggiunge: “Quando cominciano a raccontare queste cose, approfondisco e gli chiedo se hanno subito violenze, se sono state stuprate o se qualcos’altro gli è accaduto.”
Alice spiega che, certo, si commuove, ma piangere di fronte alle pazienti non sarebbe appropriato. È la mattina dopo, mentre scrive i certificati medici, che le storie che ha ascoltato la assalgono ed è difficile trattenersi. Durante le ore solitarie della mattina può lasciarsi andare.

Verena: “Ti va di condividere la storia di una delle tue signore con me?”
Alice: “Uno degli incontri che più mi ha segnata è stato quello con la 16enne Jamila. Jamila mi chiese cosa volesse dire il mio nome. Non ne avevo idea, sono Alice e basta. Allora le chiesi cosa volesse dire Jamila. E lei disse: ‘Bella e cose belle’. Jamila, bella e cose belle, era molto dolce. Era stata rapita dalla Nigeria. Non sa esattamente come. Secondo lei una brava signora l’aveva tolta dalla strada dove Jamila faceva l’elemosiva o vendeva acqua e le aveva promesso del cibo. Era stata molto ingenua. Guidarono per delle ore e Jamila cominciò a preoccuparsi, perché i suoi genitori si sarebbero preoccupati. Jamila dovette promettere di obbedire alla sua nuova ‘zia’. A quel punto cominciò a spaventarsi sul serio. La signora la portò dall’altra parte del deserto insieme ad altre persone. Ma ebbero un incidente d’auto e otto persone morirono – anche la signora che aveva portato via Jamila. La ragazza era poi stata portata in un centro di detenzione nel deserto di Sebka, gestito da un uomo nigeriano violento. Un giorno venne un uomo e disse che l’avrebbe aiutata. L’uomo comprò Jamila dal centro di detenzione e la portò a casa sua, dove lei dovette pulire e cucinare. Dopo tre giorni l’uomo volle dormire con lei. Quando lei si rifiutò perché non erano sposati, minacciò di riportarla al centro. ‘Quindi l’ho fatto’, ha detto. Ho cercato di spiegarle che non andava bene, che era sbagliato, che era stata… stuprata. Ma per lei l’unico problema del sesso non consensuale con l’uomo che l’aveva stuprata era che non erano sposati e che dopo non ebbe il ciclo per un mese. Quando Jamila disse all’uomo che non aveva più il ciclo, lui la vendette ad un arabo che la riportò nel centro di detenzione. Jamila ci rimase altre due settimane prima di essere portata alla spiaggia una sera e costretta a salire su una barca. Le ho chiesto se sapesse dove la stavano portando e lei disse ‘no’. Non sapeva dove stessero andando e quelli che chiedevano venivano picchiati. Durante la registrazione a bordo dell’Aquarius Jamila si era chiesta se fosse incinta, visto che non aveva avuto il ciclo dallo stupro. Quindi le feci il test di gravidanza e risultò positiva. È stato l’unico momento in cui Jamila ha mostrato un qualche tipo di preoccupazione ma persino allora è sembrata soprattutto disorientata. Era preoccupata perché tutte le donne incinte nel suo villaggio erano sposate. Le dissi che forse, una volta arrivata in Italia, non avrebbe dovuto tenere il bambino, se non avesse voluto. E Jamila disse: ‘Si, non lo voglio. Perché un giorno vorrei avere un bambino con mio marito’. Le dissi, che le persone non potevano costringerla a fare sesso con loro, che non andava bene. E lei rispose che l’unica cosa che non voleva era tornare al centro di detenzione nel deserto di Sebka. Perché sarebbe stata di nuovo rapita e stuprata. Tutto era surreale per lei. Questa è stata una delle storie peggiori che ho ascoltato qui.”

Verena: “è interessante vedere come le donne raccontano le loro storie, ascoltare la loro prospettiva sulle cose che le sono successe. Sai cosa succede a quelle che sono stuprate e rimangono incinte? Cosa succede a quelle che subiscono violenze?”
Alice: “Non lo so. L’ultima volta, a Salerno, le hanno portate in una tenda militare dove avevano organizzato una speciale clinica per donne.”
La nostra conversazione poi si sposta sulla vita di tutti i giorni nel rifugio, Alice spiega: “sai, a volte, è il caos completo qui. Quando tiro fuori i giocattoli per bambini, quando è affollato nel rifugio, cerco di trovare dei modi per evitare il caos più completo.”
Durante le brevi pause fra le consultazioni, Alice si siede a chiacchierare con le madri e a giocare con i bambini. “L’altro giorno, quando sono uscita dal retro della clinica, le donne mi hanno chiesto se potevano avere pollo e riso. Così gli ho detto: ‘certo, trovate un modo per cucinare per mille persone e poi lo facciamo insieme’ e sono scoppiate a ridere. Un’altra volta il rifugio era molto pieno dopo una grande operazione di salvataggio ed alcune delle donne mi chiesero se la nave si stava dirigendo verso l’Italia. Gli dissi che la nave era ancora in alto mare e stava per soccorrere altre persone. Le donne si guardarono con stupore e fecero notare che non c’era più spazio a bordo. E io dissi che avremmo dovuto fare spazio! Ma loro insistettero che non c’era più spazio e allora dissi ‘va bene, li lasceremo in acqua allora!’. Le donne mi guardarono e dissero: ‘No, certo, non vogliamo questo zia. Faremo più spazio!”
Quello di cui ci si dimentica spesso, è che le donne salvate sono delle sconosciute, e chiedo ad Alice come si sentono a condividere il rifugio. Lei crede che le condizioni a bordo non siano ideali ma comunque molto meglio di quelle dei centri di detenzione. Qui ogni donna ha una coperta e sanno che sono al sicuro.

Verena: “Da dove prendi la tua energia?”
Alice: “Ho un team fantastico. Sono i migliori! Sono magnifici, tutti. I dottori sono eccezionali e gli altri sono grandiosi. Delle bravissime persone. È da loro che prendo la mia energia. La notte, quando ho avuto una giornata pienissima, sono giù di morale e piango, mi dicono ‘Oh Alice, va tutto bene, piangiamo tutti, va tutto bene. Guarda qui’ e mi mostrano un video sciocco. E poi la mia squadra medica mi dà la più completa libertà d’azione e sono sempre lì quando ho bisogno di loro. Sono i migliori, è fantastico lavorare con loro! Sono loro a darmi energia.”
Dopo due giorni a bordo, Alice dice addio alle sue signore. Munite di cartellina medica e dei risultati delle visite, Alice spera che il suo lavoro le aiuterà ad ottenere lo status di rifugiate. Nonostante l’elevato numero di donne fra i sopravvissuti all’ultimo naufragio, Alice conosce tutte per nome e le saluta tutte. Per lei l’obbiettivo principale della sua missione è restituire dignità. E certamente chiamare qualcuno per nome è il primo, importantissimo passo. “Le fa sentire speciali – perché lo sono! Sono specialissime e ne hanno passate tante!”

Alice sarà a bordo dell’Aquarius fino ad Agosto. Ha promesso di rendermi visita a Berlino e già non vedo l’ora di accoglierla qui!

*il nome è stato cambiato

Intervista condotta da Verena Papke 

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Le dichiarazioni di Alice subito dopo l’incredibile nascita del piccolo Christ, il miracle-baby. Fonte: https://twitter.com/msf_Sea

Link comunicato stampa nascita Christ: https://sosmediterranee.it.http67.stage.fastwebsite.hosting/un-bimbo-nasce-su-un-barchino-durante-un-salvataggio-e-un-miracolo-in-una-tragedia/?lang=it

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Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.