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Aquarius, venerdì  09.12.2016.

Iason Apostolopoulos è uno dei membri dell’equipaggio SOS SAR attualmente a bordo della nave di soccorso Aquarius, di SOS MEDITERRANEE. Iason, che ha 32 anni, è originario della Grecia. L’anno scorso ha lavorato come conduttore di RHIB ed addetto al salvataggio attorno all’isola greca di Lesbo, dove più di 500000 rifugiati sono arrivati tramite il mare. Accompagnato da altri giovani volontari del posto, Iason ha fondato un’iniziativa indipendente di aiuto in caso di urgenza per i rifugiati a Lesbo. In seguito all’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, il numero di rifugiati diretti a Lesbo è diminuito radicalmente ed è sceso praticamente a zero. Nonostante ciò, la crisi è bel lontana dall’essere risolta ed è per questo motivo che ha deciso di impegnarsi come volontario per SOS MEDITERRANNEE. Si appresta a terminare il suo secondo turno a bordo dello Aquarius e, fino ad ora, ha partecipato a dodici salvataggi. Ecco un resoconto delle sue operazioni più recenti. Ha redatto questo articolo il 7 Dicembre al fine di informare i suoi genitori e la sua famiglia sulla situazione nel Mediterraneo.

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«Cinque giorni fa, uno dei nostri salvataggi ha preso una piega drammatica. Sabato 3 dicembre, alle otto del mattino, un grande canotto che trasportava 145 persone ha cominciato a sgonfiarsi, provocando il panico a bordo. Nel tumulto generale, alcuni si sono gettati nel mare. Siamo riusciti a tirarli tutti fuori dall’acqua e, proprio nel momento in cui pensavamo che fossero tutti salvi, i sopravvissuti ci hanno informato che altre due persone erano caduti in acqua e non erano più risaliti. Abbiamo allora cominciato le ricerche sul RHIBS e, finalmente, abbiamo individuato e salvato le due persone segnalate. Sono riusciti a restare a galla attaccandosi ad un pezzo di plastica blu. La loro sopravvivenza è un miracolo.

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Domenica 5 Dicembre, tra le 2 del mattino e l’una del pomeriggio, abbiamo effettuato tre salvataggi e due giorni più tardi abbiamo fatto sbarcare in Italia 353 immigrati sopravvissuti e, sfortunatamente, i corpi di due ragazze che sono state trovate svenute su una delle barche e che sono morte sulla nostra nave malgrado gli sforzi dei dottori. La causa più probabile del loro decesso è l’ipotermia. La settimana scorsa abbiamo effettuato due viaggi supplementari in Sicilia. Nel corso del primo sono state salvate 650 persone e 250 durante il secondo.
Le condizioni di questa traversata sono molto peggiori rispetto a quelle della traversata fra la Turchia e Lesbo. Qui, le persone non portano il giubbetto di salvataggio (quelli che vedete in foto sono stati forniti da noi) e il numero di persone ammassate su ogni barca è inimmaginabile. In generale, un canotto pneumatico semi-rigido può trasportare dalle 120 alle 150 persone mentre una barca di legno tra le 500 e le 600 persone. Su queste ci sono dei gradini dove la gente è incastrata in una tale maniera da doversi serrare agli altri, soffocandola, e i vivi devono viaggiare insieme ai morti per delle ore.
La loro traversata verso l’Italia dovrebbe durare tre giorni, ma i trafficanti gli dicono che sarà solamente di quattro ore. Quando gli viene spiegata la distanza percorsa, ne sono profondamente scioccati. In realtà, il rischio di morire è del 100% e la loro sola possibilità di sopravvivenza è la speranza di essere avvistati da una nave di salvataggio o quelle che trasportano approvvigionamento alle piattaforme petrolifere libiche.

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I trafficanti libici adattano le loro attività alla presenza di navi di salvataggio e diminuiscono la qualità delle barche per la traversata. Limitano anche la quantità di carburante nei motori, gliene forniscono quanto basta per uscire dalle acque della Libia. Le navi di soccorso devono quindi avvicinarsi sempre più alla costa della Libia per realizzare le loro operazioni (ieri eravamo a 25 kilometri dal litorale).
La maggior parte di queste persone viene dall’Africa sub-sahariana, soprattutto dai paesi dell’Africa dell’Est e della Nigeria.

«Se avete intenzioni di riportarmi in Libia, salto dalla nave.» Questa frase spiega bene quello che avvertono tutti gli immigrati. Quando si riprendono dallo shock del mare, la sola cosa di cui parlano è la Libia. La Libia è l’inferno, ai loro occhi. Ci parlano dei pestaggi, dei furti a mano armata o delle violenze commesse tutti i giorni sui Neri. Ci dicono che molti libici sono estremamente razzisti verso gli Africani sub-sahariani, che chiamano “gli animali neri”, e che trattano come dei “sub-uomini”. Secondo le loro testimonianze, l’intero paese è armato, persino i bambini hanno un revolver. Si divertono a sparare sui neri a caso. «Chiunque ci può obbligare a dargli del denaro. Dei bambini di dieci anni ci molestano, e se osiamo rispondergli o persino guardarli negli occhi, siamo fortunati se ci sparano solo alle gambe », mi ha confidato uno di loro.
Le loro storie sono sconvolgenti. Delle milizie armate li imprigionano in dei centri di detenzione lasciandoli quasi senza cibo, colpendoli tutti i giorni, e la loro unica speranza di uscirne è pagare un libico perché li faccia scappare. Poi però dovranno lavorare come schiavi per questa persona. «Ti fanno fare qualsiasi tipo di lavoro ingrato, 16 ore al giorno senza pause, per tre o quattro mesi. Se osi chiedere di essere pagato, ti picchiano o ti sparano. A volte abbandonano qualcuno nel deserto perché muoia di sete. Non vale la pena cercare di scappare, perché è la stessa cosa in tutto il paese. Non c’è nessun luogo sicuro in Libia. »
La loro sofferenza termina in genere dopo quattro o cinque mesi. Quando i trafficanti decidono che li hanno sfruttati abbastanza, li mettono su una barca e li spediscono in Italia. In questo modo si assicurano un flusso costante di nuovi arrivati in Libia.
Per quanto riguarda le donne, lo stupro e il traffico di esseri umani sono ovunque. Nel corso del nostro ultimo salvataggio, le nostre squadre hanno riscontrato numerose vittime di violenze sessuali subite in Libia. Molte donne hanno appreso dai nostri dottori a bordo che erano incinte. La Libia è un paese di transizione importante per la tratta di donne verso l’Europa. Il procedimento è molto complesso. I trafficanti si appoggiano a dei magnaccia nei loro paesi d’origine (in particolare il Nigeria) perché questi portino le ragazze in Europa. Alcune sono consapevoli del lavoro che sono mandate a fare, ma non si rendono conto delle difficoltà che le attendono. Altre sono state attirate dalla falsa promessa di essere assunte nel mondo della moda. Per molte di queste, si tratta di un’opportunità unica per scappare dalla povertà estrema del loro paese di nascita ed aiutare le loro famiglie a sopravvivere. I magnaccia e le ragazze fanno il viaggio insieme e pronunciano un voto di silenzio basato sulle superstizioni locali. Ciò è il motivo per cui queste raramente parlano di ciò che hanno subito. In Libia, molte ragazze sono sequestrate dai trafficanti libici, che le obbligano a lavorare nei loro bordelli. I libici le sfruttano come sfruttano gli uomini, obbligandole a lavorare senza salario.
Nonostante tutte le sofferenze subite da questi individui, l’atmosfera a bordo dello Aquarius è fonte di ispirazione. Tutte queste persone si rispettano e si aiutano a vicenda, i più forti si prendono cura dei più deboli, tutti sono cordiali e calorosi ed alcuni, dopo essersi ripresi dallo shock, persino cantano e ballano. Le differenze di origini e credo religioso sono notevoli, ma è raro vederli litigare. Il tempo passato insieme durante la traversata verso l’Italia resta uno dei momenti migliori di questo terribile viaggio, e dirsi addio una volta sulla terra ferma è sempre molto doloroso. »

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Testo: Iason Apostolopoulos

Traduzione inglese: Elodie Hunnt

Traduzione italiana: Flavia Citrigno

Photo credits: Laurin Schmid/SOS MEDITERRANEE

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L’associazione SOS MEDITERRANEE è interamente finanziata dalla popolazione solidale a livello globale, dall’appoggio della società civile europea!

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Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.