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Marie Rajablat, scrittrice, è imbarcata da ormai due settimane sull’Aquarius. Due settimane segnate da naufragi che hanno fatto delle vittime nel Mediterraneo e di cui l’Aquarius ha accolto alcuni dei sopravvissuti. Dopo i salvataggi del 14 e del 15 novembre, appena finito il turno di guardia sul ponte anteriore, Maria ha raggiunto la sua cabina e ha preso la sua penna per raccontare quello che aveva visto, sentito e vissuto a bordo.

AQUARIUS – mercoledì 16.11.16

“Terminate le operazioni di soccorso e i trasbordi, la Aquarius, stracolma, fa rotta verso l’Italia. Passo e ripasso sui ponti della nave, per vedere se va tutto bene. Riempire una bottiglia d’acqua per una persona, cercare la coperta di un’altra, dare continuamente informazioni a tutti su a che punto siamo delle nostre operazioni: tutto è un pretesto per condividere. Navigare con più di 400 persone estenuate, fiaccate da dolori e da ricordi terribili, richiede una grossa attività di cura, affinchè tutto vada bene e ciascuno dei marinai, dei soccorritori e dei medici possa fare il suo lavoro in serenità e condurre tutti a destinazione.

Moussa (*) é seduto con i suoi amici su uno dei cassoni del ponte di sinistra. In quelle circostanze ed in quelle condizioni, due giorni e due notti bastano perchè nascano dei legami: ” Vieni Mama, hai detto di essere la scrittrice di bordo. Vorrei che tu scrivessi la storia del mio amico Sila. Quando penso al mio amico Sila -pace all’anima sua- è terribile quello che gli è successo. Durante tutta la traversata, era stato lui ad incoraggiarmi a non perdere la speranza. Mi diceva: perchè Allah ci avrebbe condotto fino a qui per poi abbandonarci quando sa perchè siamo partiti. Sa che siamo partiti per aiutare le nostre famiglie a stare meglio. Se moriamo, tante altre vite sono messe in pericolo…Abbi fede amico mio. Allah è grande. Dobbiamo resistere, arriveremo…”

Moussa passa a descrivermi in che stato si trovavano le persone sedute intorno a lui nel barcone. Tutti avevano fame, freddo. La maggior parte aveva mal di mare perché il mare era grosso. Con il passare del tempo, alcune persone hanno iniziato a cedere e a scivolare sul fondo dell’imbarcazione. L’amico di Moussa era tra queste:” Nel barcone, mi faceva male la pancia ed anche a lui. Aveva bevuto dell’acqua e del gasolio. L’ho trattenuto fino alla fine, non volevo addormentarmi per non lasciarlo, per evitare che finisse sul fondo del barcone…”. Moussa tace per un lungo istante, poggia la testa contro la paratia della nave. Mi accorgo che stringe i denti ma le lacrime finiscono per scendere. Henri, il suo amico, distoglie lo sguardo. Piange anche lui. Moussa riprende il racconto: “Ha vomitato su di me, ha fatto i suoi bisogni su di me. Gli tenevo la mano perché avevamo paura. E ora lui non c’è più e io sono vivo…Capisci, la notte scorsa, mi sono svegliato di soprassalto. Credevo fossimo ancora su quella barca. Si ballava, per le onde, sul ponte. Quando mi sono guardato intorno mi ha fatto strano. Se chiudo gli occhi, vedo il mio amico. Ma se te tengo gli occhi aperti, lo vedo lo stesso.”

Henri, a sua volta, mi racconta :” E’ vero Mama, pensavamo di morire. Anche io ho avuto paura per mio fratello minore. Aveva inghiottito molto gasolio e dell’acqua salata. Non rispondeva più. Quando l’elicottero è venuto a prenderlo ieri sera, ho creduto di averlo perso. Ho creduto che fosse morto….Come avrei fatto a dirlo ai miei genitori…Grazie a Dio sta meglio..” Henri si chiude in se stesso e fissa l’orizzonte.

Brahim ascolta i più grandi, anche lui, gli occhi fissi nel vuoto, come se fosse ancora su quel barcone. Resterà così per delle ore. Non gli chiedo niente ma non lo perdo di vista. Quando torno da lui al calar della sera gli chiedo come sta: ” Ero sul barcone dove ci sono stati 99 morti. So che avete dei cadaveri qui sulla nave. Vorrei sapere se i miei amici sono qui o se sono rimasti in mare”. Con l’aiuto dei suoi vicini, mi fa una lista di 9 ragazzi. Mi descrive gli abiti che ciascuno indossava e loro eventuali segni distintivi. Dopo un controllo, nessuno di loro è a bordo. Sono, dunque, tutti annegati.

Sullo stesso barcone di Brahim c’era anche Zeineb. E’ l’unica donna che è sopravvissuta. Costretta con la forza a sposarsi qualche anno fa, Zeineb decide di fuggire dai maltrattamenti di suo marito. Parte con Fatiah, la sua amica, che invece vuole raggiungere suo marito, arrivato in Italia l’anno prima. All’improvviso, Zeineb mi racconta: ” Già alla partenza,alcuni dicevano che non potevamo partire con quella barca perché il motore faceva un rumore strano e c’era dell’acqua sul fondo. Li hanno picchiati e buttati dentro il barcone. Non si poteva tornare indietro. Siamo partiti di notte, verso mezzanotte o l’una. C’era molto vento, il livello dell’acqua saliva sempre di più. Le persone a bordo avevano paura. Ce n’erano alcune che piangevano, altre che invocavano Dio. Alcuni uomini dicevano di non muoversi per non far capovolgere la barca. Siamo rimasti così per molto tempo, due o tre ore, non so.

Poi le onde sono diventate più forti ed il barcone si è rovesciato. La maggior parte delle persone non sapeva nuotare. Il barcone era spinto dal vento. Io non so nuotare. Degli uomini hanno rigirato il barcone e ci sono saliti dentro ma impedivano agli altri di risalire. Le due donne che mi hai mostrato prima sulle fotografie erano riuscite a risalire ma gli uomini le hanno ributtate in mare. E’ per questo che sono annegate.

E quando sono riuscita a aggrapparmi alle cime, hanno spinto via anche noi. Allora è arrivata l’unità di soccorso e ci hanno lanciato dei giubbotti di salvataggio. Anche allora, gli uomini non volevano che prendessimo i giubbotti. Allora mi sono aggrappata alla schiena di un ragazzo che aveva un giubbotto e sono venuti a salvarmi”. Quando chiedo a Zeineb se ha paura, mi risponde sempre con lo stesso tono monocorde che no, non ha paura. Ma, come gli altri, continua a vedere i volti delle persone che annegano intorno a lei, che chiuda gli occhi o meno, li sente gridare le loro ultime parole…”Adesso non riesco più a guardare il mare”. E, effettivamente, non é mai uscita una sola volta dall’area di ricovero della nave da quando è arrivata.

Si potrebbe pensare che Mabie ne esca meglio degli altri.”Volevo lasciare il mio paese perché laggiù non trovavo materiale per fare le mie scarpe, le miei cinture e le mie borse. Lavoro i pellami. E’ il mio lavoro…” Ed eccolo enunciarmi tutti i paesi che ha attraversato alla ricerca di cuoio per le sue scarpe. Mambie è volubile, mi guarda negli occhi, mi considera un testimone, si esalta:” E’ importante, Mama, avere delle buone scarpe per stare in piedi ed andare dove uno vuole…”. Poi, all’improvviso, in mezzo a delle spiegazioni confuse sulla manifattura delle scarpe col tacco, si ferma ed il suo sguardo si perde lontano: ” Era dura la prigione…sono arrivato da Agadès a Tripoli….In Libia non amano i neri…ci sbattono in galera…ci sono rimasto sette mesi…sono riuscito a scappare…avevo paura del mare ma non avevo altra scelta…”. A chiunque si fermi a parlargli, Mambie racconta la sua storia di calzolaio, esattamente nello stesso ordine, con le stesse spiegazioni, negli stessi luoghi, poi si interrompe. Tra la prigione e la Aquarius, è come se non sia successo niente…

Moussa ha 19 anni. Viene dalla Costa d’Avorio. Henri ha 18 anni. Viene dal Camerun. Brahim ha 12 anni. Viene dal Senegal. Zeineb ha 19 anni. Viene dal Mali. Mambie ha 18 anni. Viene dal Gambia.
Stamattina, insieme a tutti i loro compatrioti, hanno, per la prima volta, toccato il suolo italiano.”

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* I nomi di tutti quelli che hanno voluto dare una loro testimonianza, adulti e bambini, sono stati modificati. Ciascuno ha scelto il suo pseudonimo.

Testo: Marie Rajablat

Traduzione: Francesca Ciardiello

Photo Credits: Susanne Friedel/SOS MEDITERRANEE

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Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.