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(Salvato e trasferito a bordo della nave Aquarius dalla guardia costiera italiana. 28.03.2016)

 

Nota:

Lui (lo chiameremo Hamed) sembrava estremamente colpito dall’esperienza appena vissuta. I suoi occhi erano gonfi di lacrime mentre parlava. A confortarlo c’era un espatriato libico/siriano che aveva incontrato sulla barca.

Ho chiesto ad Hamed se accettava di essere fotografato. Ho ripetuto la domanda più volte e lui alla fine mi ha risposto con un “Sì”.

Durante la seconda notte passata sull’ Aquarius fu colpito da una forte colica renale, probabilmente causata dalla disidratazione, da problemi medici pre-esistenti e dall’ingestione di acqua contaminata. Appena sbarcato, riusciva a malapena a camminare. Il suo modo di esprimersi rimarcava i segni di un acuto dolore.

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La testimonianza

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Il mio nome è Hamed, non ho ancora 40 anni e vengo dalla regione del Sinai, in Egitto.
Dalla rivoluzione del 2011 la situazione in Egitto non fa che peggiorare. Sono stato costretto a lasciare il mio paese a causa della mancanza di lavoro, per riuscire a mantenere la mia famiglia, moglie e figli.  Un giorno il mio capo convinse una dozzina di noi a lasciare il posto di lavoro in Egitto, per andare a lavorare in Libia. Ci spiegò che lì aveva delle ottime conoscenze.

Partimmo per strade diverse. Alcuni di noi decisero di entrare in Libia attraverso il Sudan, altri attraverso la Turchia. Ci avevano detto in Libia avremo trovato una situazione del tutto calma e tranquilla. All’arrivo trovammo edifici completamente perforati dai proiettili.

Sono rimasto un anno in Libia. Lavoravo in una fabbrica. All’inizio, per i primi tre mesi, la paga arrivava regolarmente. Poi velocemente tutto cambiò e radicalmente. Iniziarono a trattarci come schiavi e ad abusare di noi. Ci obbligavano a svolgere lavori di tutti i tipi. Invece di lavorare come previsto, ci destinavano allo stoccaggio di materiali e a lavori di costruzione. Il mio capo egiziano era protetto dalla milizia locale. Ci sfruttava senza temere la benché minima conseguenza. Il cibo mancava e l’acqua che bevevamo era sporca.  Dormivamo dove lavoravamo, tutti insieme, tutti gli uomini che erano lì. Eravamo egiziani insieme a libici.

La situazione era estremamente insicura. Tutto quell’insieme di conflitti e di forza bruta della milizia locale producevano come conseguenza una situazione gravissima. Le persone erano costrette per sopravvivere a sbranarsi una con l’altra od a combattere. I combattimenti erano incessanti. I giovanissimi erano più armati degli adulti. Il rischio di essere bloccati a posti di controllo o di essere rapiti era sempre presente. Le armi che la gente possedeva erano molto potenti. Chiunque poteva pretendere di affermare di essere un poliziotto. Chiunque era corruttibile. Se riuscivi a corrompere qualcuno, potevi comprare qualsiasi cosa.

In Libia possono rapirti, detenerti in prigione oppure chiedere un riscatto in qualsiasi momento. Per alcune persone questa è l’unica fonte di guadagno. La vita per questa gente non ha alcun valore. Potrebbero ucciderti in ogni momento senza alcun motivo. Ciascuna zona è controllata da una diversa milizia. Il territorio è spartito tra le varie milizie. E’ un business pazzesco. Non hanno nessun interesse a ricostruire il paese.

Poco tempo fa mi hanno teso un agguato. Alcune macchine senza targa hanno provato a bloccarmi. Volevano catturarmi, ma sono riuscito a fuggire. E’ stata un puro caso, un vero colpo di fortuna! Dopo essere riuscito a scampare da quell’agguato, la situazione poi è diventata ancora più insopportabile.
Mi erano rimaste due sole possibilità: o quella di suicidarmi o quella di lasciare il paese. Ho quindi deciso di lasciare il paese il prima possibile. In Egitto non potevo però ritornare perché lì non c’era lavoro e la mia famiglia contava sul mio aiuto.

Questo è stato il mio primo tentativo di fuga dalla Libia. Per potermi permettere il viaggio in barca, ho dovuto vendere il mio telefono cellulare, lo avevo sempre con me. Non ho potuto conservare nessun numero tranne quello di casa. Ero convinto da questo tentativo di fuga sarei uscito morto. Non avevo con me nemmeno la carta d’identità. Il mio capo in Libia me l’aveva sequestrata. Alla mia famiglia ho raccontato che me ne sarei andato dalla Libia. Mia madre ha provato naturalmente a dissuadermi dall’idea. Ho dovuto così mentire e raccontare che avrei fatto il viaggio su una nave mercantile.

Per lasciare la costa di Tripoli c’erano quattro barche. Ciascuna barca può contenere, a gran fatica per starci e con grande pericolo, un massimo di 100 persone. Nonostante ciò i trafficanti, persone molto potenti e armate, riuscivano a caricare 135 persone per barca. Di solito chiedevano 1200 dollari libanesi (779 EUR) per il viaggio. Qualche volta il prezzo saliva a 1500 dollari (974 EUR). Altre volte, quando avevano necessità urgente di riempire le barche, il prezzo scendeva a 800, 500 od anche 400 dollari. Non aveva molta importanza per loro l’esito della traversata, perché i loro magazzini erano pieni zeppi di barche. Erano assolutamente consapevoli di mandarci a morire. Prima della partenza, due dei migranti a bordo sono stati istruiti dandogli istruzioni elementari sul modo di effettuare la traversata in mare aperto. A questi era spiegato come funzionava il GPS e poco di più. Poi li hanno fatti andare via, in mare. Questi trafficanti, corrompendo la polizia, riuscivano a far partire fino a 1000 persone al giorno.

Se rimanevi, rischiavi di morire. Se partivi, rischiavi di morire. Tanto valeva rischiare e partire. All’imbarco c’erano molti trafficanti con i loro fuoristrada 4×4, armati fino ai denti. Hanno anche sparato in direzione di un uomo: non lo hanno colpito. Eravamo circa 135 persone, ammassati letteralmente uno sopra l’altro.

Abbiamo lasciato il porto di notte, senza avere con noi né acqua né cibo. Ero terrorizzato.

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Solo allora ho realizzato in che situazione mi ero infilato. Perché avevo deciso di entrare in quel buco infernale? Io avevo un giubbotto salvagente e con me lo avevano solo altre due o tre persone. Tutti gli altri passeggeri non avevano niente. Dopo qualche ora il motore si è piantato, si è rotto. Ci sentivamo spacciati in mezzo al mare. La gente piangeva, mentre le onde si infrangevano sulla nostra barca. L’esperienza di trovarsi in balia del mare è stata terribile. Mi sentivo perso. Aspettavo solo la morte. Pensavo a tutta la mia famiglia, che contava sul mio aiuto. Io invece potevo vedermi già morto. Il tipo di barca su cui mi sono imbarcato al massimo poteva fare una trentina di chilometri in mare. Lo sapevo sin dall’inizio. Il motore era troppo debole per poter riuscire a far percorrere alla barca con tutto quel carico una distanza così grande, dalla Libia all’Italia. Alla fine avevamo perso ogni speranza.

Sono passate molte ore prima che una nave italiana ci abbia avvistato e ci sia venuta a salvare. Ho provato e provo ancora adesso una gratitudine immensa per chi ci ha salvato. Sulla nave italiana la vita aveva un valore. Ci hanno trattato con molta dignità e rispetto. Ci hanno dato da mangiare e bere. Tutto ciò diversamente dai bruti in Libia che sapevano parlare solo il linguaggio delle armi. Eravamo rimasti a digiuno per 2 giorni interi. La gente sulla nave (L’Aquarius) ci sta trattando come esseri umani. In Libia eravamo solo schiavi.

Attraversare il mediterraneo è stato un viaggio al limite della morte. Non consiglierei mai a nessuno di viaggiare in questo modo. Dirò ai miei amici che sono rimasti in Libia di non rischiare le proprie vite per tentare la traversata. Non so però se ascolteranno i miei consigli. La gente lì e talmente disperata che è disposta a tutto, a qualsiasi costo.

Non posso ancora credere di essere stato salvato e di essere a bordo di questa nave. Questa esperienza è senz’altro la più difficile che abbia mai vissuto. Faccio fatica a controllare i miei pensieri. La scorsa notte non ho chiuso occhio. Ancora non riesco a capire se sono vivo o morto. Mi sento scosso. I pensieri non abbandonano la mia testa. Le immagini del viaggio non smettono di scorrermi avanti a gli occhi. Hanno provato a mandarci a morire!

Originale: Nagham Awada, Com Officer  on the Aquarius (4/5/16)

Traduzione:  Giorgio Baldelli (4/5/16) SOS MEDITERRANEE ITALIA

Nel febbraio 2017, il governo italiano, col supporto di diversi leader europei (vertice di Malta) sigla con le autorità libiche il Memorandum d’intenti, cornice giuridica per azioni successive come la creazione di una “guardia costiera” libica, il suo addestramento e la fornitura di mezzi (es. motovedette). Fin da subito l’accordo è criticato da organizzazioni internazionali che denunciano i legami fra guardia costiera e milizie, e le condizioni di vita di migranti e profughi bloccati in Libia.

A seguito di questo accordo, il Centro di coordinamento per i soccorsi libico (JRCC) diventa formalmente responsabile del coordinamento dei servizi di ricerca e soccorso nella propria regione SAR: da quel momento, le autorità europee fanno affidamento sui libici per bloccare le partenze. Solo tra il 2019 e il 2023, quasi 90.000 persone3 sono intercettate e riportate in quello che viene definito dai sopravvissuti “l’inferno in terra”.

Il risultato è una drastica diminuzione degli arrivi in Italia tra il 2017 e il 2018 (da circa 120.000 a 23.000 persone), curva che però poi tornerà nuovamente a crescere. I rimpatri forzati sottopongono di nuovo queste persone a trattamenti inumani e degradanti, nonostante la situazione nei campi in cui sono detenute in Libia è stata valutata da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite come probabili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Queste intercettazioni contravvengono anche ai principi del diritto marittimo. che impongono di sbarcare i sopravvissuti di un salvataggio in un luogo sicuro, in cui tutti i bisogni fondamentali vengono soddisfatti e i diritti umani rispettati. La Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”.

Inoltre, le autorità libiche si rivelano disfunzionali e non in grado di effettuare salvataggi efficaci e sicuri. Come risultato, ancora una volta, sempre più persone annegano.

Nello stesso 2017, alle ONG viene richiesto di sottoscrivere il cosiddetto “Codice di condotta Minniti” – dal nome dell’allora ministro dell’Interno italiano – che però non tiene in considerazione che le operazioni SAR si svolgono già secondo chiare normative internazionali: una mossa politica che avalla la narrazione criminalizzante sul soccorso in mare. Dal 2017 vengono avviate diverse indagini contro le navi ONG, per lo più conclusesi con assoluzioni o archiviazioni. Bloccare le ONG di ricerca e soccorso significa svuotare il Mediterraneo di soccorsi ed esporre così sempre più persone al rischio di annegare, e anche togliere alla società civile la possibilità di testimoniare e denunciare questa tragedia umanitaria.

Nel 2013, due tragici naufragi avvenuti a poche miglia dalle coste europee scuotono l’opinione pubblica: il primo, il 3 ottobre – data proclamata in seguito Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione – con 368 vittime accertate, 20 dispersi e 155 superstiti; e il secondo, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, che causa 268 vittime, in prevalenza famiglie con bambini.

Questa missione fa sperare in un cambiamento nell’approccio vieni all’immigrazione e al soccorso in mare, ma così non succede perché Mare Nostrum viene chiusa nel novembre 2014 per la mancanza di supporto da parte di altri Stati europei e per le critiche, da diverse parti politiche, che la additano come pull factor. La missione italiana è sostituita da operazioni europee (Triton, EUNAVFORMED, Sophia e Irini) non sufficienti però a coprire le necessità di soccorso nel Mediterraneo e con obiettivi più securitari (controllo dei confini) che umanitari.

È in questo momento storico che numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadini in tutta Europa, mossi dallo sdegno e dall’incapacità di accettare così tante morti in mare, decidono di attivarsi con navi private, sia nel mar Egeo (sulla cosiddetta rotta orientale tra Turchia e Grecia) sia, soprattutto, nel Mediterraneo centrale. SOS MEDITERRANEE nasce proprio con questo spirito: dapprima vengono fondate le associazioni francese e tedesca (2015), poi quella italiana (2016) e infine quella svizzera (2017), le quattro “sorelle” che costituiscono il network SOS MEDITERRANEE.

Inizialmente, le ONG vengono accolte positivamente dall’opinione pubblica e dalle autorità marittime europee, italiane in particolare, e coordinamento e collaborazione sono all’ordine del giorno.

Nel giugno 2018, a seguito della chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso, l'odissea della Aquarius, costretta a sbarcare a Valencia (Spagna) i 630 sopravvissuti a bordo, inaugura una lunga serie di blocchi in mare. Le navi, di qualsiasi tipo, rimangono bloccate per giorni, se non settimane, prima che alcuni Stati europei propongano una soluzione di sbarco ad hoc, con una distribuzione dei sopravvissuti in base a quote. Il diritto marittimo prevede invece che le navi debbano essere sollevate dalla responsabilità del soccorso il più rapidamente possibile e che i sopravvissuti siano trattati umanamente. In mare, le navi immobilizzate non possono soccorrere altre persone in pericolo. La capacità di soccorso si riduce ulteriormente e la mortalità aumenta, raggiungendo il tasso record del 5,6% (contro il 2,4% nel 2017) lungo l'asse Libia - Italia, nonostante il numero di attraversamenti fosse stato ridotto del 50%.

Le motivazioni fornite dall’allora governo sono essenzialmente due: diminuire le morti in mare e ricercare maggiore “solidarietà” da parte degli altri Paesi UE.

Entrambi gli scopi falliscono e soprattutto la mortalità sulla rotta aumenta, invece che diminuire4. Inoltre, tale pratica presenta non poche criticità, in primis perché ritarda inutilmente lo sbarco e dunque l’assistenza a terra ai sopravvissuti, andando in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni marittime internazionali, che affermano che una nave deve essere sollevata quanto prima dalla sua responsabilità di salvataggio e che i sopravvissuti debbono essere trattati “con umanità”. Invece, il tempo medio di attesa di un porto per lo sbarco, in questo periodo, è di nove giorni.

SOS MEDITERRANEE è la prima organizzazione a vedere le conseguenze di questa linea politica: nel giugno 2018, alla Aquarius è impedito lo sbarco in un porto italiano e naviga per più di una settimana fino a Valencia, in Spagna, con 629 persone a bordo. Pochi mesi dopo, la Aquarius è privata della bandiera a causa di pressioni politiche, e di conseguenza impossibilitata a navigare. Dal 2019, SOS MEDITERRANEE opera nel Mediterraneo con la Ocean Viking.

Questa iniziativa franco-tedesca è oggetto di una promettente dichiarazione d'intenti firmata a settembre tra Italia, Malta, Francia e Germania. Tuttavia, il progetto pilota, che prevede un meccanismo sostenibile coinvolgendo altri Stati membri, non vede mai realmente la luce.

A settembre 2019, per la prima volta dal rifiuto di far sbarcare i 630 sopravvissuti della Aquarius nel giugno 2018, i porti italiani permettono a una nave di un'organizzazione non governativa di attraccare: si tratta proprio della nostra nuova nave, la Ocean Viking. Nasce dunque la speranza di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie ma ciononostante, i casi di attesa e blocco in mare si moltiplicano con la negoziazione caso per caso della distribuzione dei sopravvissuti prima ancora dello sbarco.

Nel 2019, il numero di arrivi in Europa tramite le tre rotte migratorie mediterranee è il più basso dal 2015: 123.700 arrivi, rispetto a 141.500 nel 2018, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di cui circa 11.500 in Italia.

Nonostante questa significativa diminuzione degli arrivi negli ultimi tre anni, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) registra un pesante bilancio umano nel 2019. La maggior parte delle morti in mare nel Mediterraneo si verifica nella regione centrale, con 1.262 delle 1.885 morti registrate lungo le tre rotte migratorie mediterranee, senza contare le imbarcazioni scomparse senza lasciare traccia. La mortalità nel Mediterraneo centrale raddoppia rispetto al 2018, raggiungendo un tasso record del 4,78%, secondo l'OIM.

Nel 2020, i segni promettenti di un miglioramento della situazione di blocco delle navi umanitarie alla fine del 2019 e all'inizio del 2020 sono bruscamente cancellati quando la pandemia di Covid-19 raggiunge il continente europeo nel marzo 2020.

Non solo causa gravi interruzioni nell'accesso ai servizi medici e logistici nella maggior parte degli Stati europei, ma sconvolge completamente il mondo marittimo: chiusura delle frontiere europee, impossibilità di cambiare gli equipaggi, porti chiusi - in particolare alle navi da crociera - navi messe in quarantena. Molto rapidamente, diversi Stati membri dell'Unione europea come Malta e l'Italia annunciano ufficialmente che non sono più in grado di fornire un luogo sicuro o assistere nello sbarco delle persone soccorse in mare. Il governo di Tripoli dichiara ad aprile che i suoi porti non sono sicuri per lo sbarco a causa dei bombardamenti in corso. Per diverse settimane, le ONG di ricerca e soccorso operanti nel Mediterraneo centrale sono costrette a sospendere le loro attività.
Con la ripresa delle partenze e delle operazioni civili di soccorso, si osserva un cambio di passo - seppur solo apparente - nei confronti delle organizzazioni umanitarie.

Cambiato il Governo e dunque il ministro dell’Interno, a livello mediatico si “abbassano i toni” rispetto alla criminalizzazione pubblica delle organizzazioni umanitarie, a cui non viene più impedito lo sbarco in Italia; di contro però, non solo la durata degli stand off non diminuisce, ma si osserva un aumento del numero di controlli e fermi amministrativi delle navi civili di soccorso. In 15 mesi, tra il gennaio 2020 e il maggio 2021, le autorità italiane emettono ben 11 disposizioni di fermo amministrativo a seguito di controlli dello Stato di approdo (PSC), causando la mancanza di assetti civili di soccorso in mare per un totale di 494 giorni. Anche la Ocean Viking in quel periodo è colpita da un provvedimento amministrativo che la tiene lontana dall’area delle operazioni da luglio a dicembre 2020: il fermo più lungo subìto da SOS MEDITERRANEE. Una politica persecutoria finalizzata ad ostacolare l’operatività delle ONG, con la sola conseguenza di diminuirne fortemente la presenza in zone di emergenza, mentre fatali naufragi continuano drammaticamente a succedersi.

Al contrario, le imbarcazioni della guardia costiera libica ostacolano attivamente le operazioni di soccorso e la mancanza di coordinamento ha causato prolungate attese in mare per i soccorsi, oltre a mettere in pericolo vite umane. Dall’autunno 2022, con l’ennesimo cambio di Governo, le autorità italiane assegnano immediatamente il porto di sbarco, in osservanza delle norme sul soccorso in mare.

Ma se fino a quel momento destinazione delle navi civili sono stati i porti siciliani o calabresi, le autorità iniziano ad assegnare porti lontani migliaia di chilometri: Livorno, Ravenna, Ancona, La Spezia, Civitavecchia, Ortona, Genova. Questa politica ha di nuovo l’effetto di tenere le navi civili di soccorso lontane dal Mediterraneo centrale, dove le persone in fuga sono dunque più esposte al rischio di morte o di essere intercettate e forzatamente riportate in Libia.

Raggiungere un porto lontano significa prolungare il viaggio dei naufraghi, ovvero aumentare le sofferenze di persone vulnerabili e bisognose di assistenza a terra; per le ONG significa anche un incremento spropositato dei costi per il carburante.

Inoltre, va ricordato che il diritto internazionale del mare impone l’assegnazione di un porto il più possibile vicino, proprio per evitare inutili sofferenze alle persone soccorse. Nell’autunno 2022, il neoeletto governo interviene per impedire lo sbarco dei naufraghi a bordo di tre navi umanitarie (Humanity 1, Geo Barents e Ocean Viking), servendosi di provvedimenti interministeriali ad hoc: la Ocean Viking è tenuta “sospesa” in acque internazionali con centinaia di naufraghi a bordo per ben 21 giorni: il più lungo stand off della storia di SOS MEDITERRANEE. La nostra nave può infine sbarcare i sopravvissuti solo il 25 novembre a Tolone, in Francia.

Il nuovo decreto, non necessario dato che il soccorso in mare è già dettagliatamente regolato da norme internazionali, pone nuove limitazioni alle imbarcazioni civili di soccorso e sanzioni pecuniarie: tra queste, il dovere di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco assegnato, scoraggiando così i “soccorsi multipli” e mettendo i Capitani nelle condizioni di violare il decreto o le disposizioni del diritto marittimo internazionale che impongono il soccorso. Tale imposizione, combinata con la prassi dei “porti lontani”, rappresenta un grave e ingiustificabile ostacolo al lavoro umanitario in mare, un deterrente per lo svolgimento di operazioni di soccorso complete e necessarie.

A luglio, la Ocean Viking ancora una volta subisce le ripercussioni di una politica di ostacolamento e viene nuovamente posta sotto fermo amministrativo a seguito di un Port State Control (PSC) - Controllo dello Stato di Approdo. Durante quest’anno, due tragici naufragi nel Mediterraneo tornano a scuotere l’opinione pubblica europea: nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, più di 100 persone muoiono a pochissime miglia dalle coste calabresi di Cutro (KR); poi a metà giugno, al largo della località greca di Pylos, perdono la vita oltre 500 persone, in quello che è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo dal 2015. Nonostante l’ondata di sdegno generata, nessuno di questi due drammatici eventi ha portato a cambiamenti effettivi nell’approccio e nelle politiche sul soccorso in mare.

Nel luglio del 2023, l’Unione europea, attraverso una delegazione guidata dalla Commissaria Ursula Von Der Leyen, dalla Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte, firma un Memorandum d’Intesa con la Tunisia, rappresentata dal Presidente Saied. Tale accordo è finalizzato a limitare le partenze verso l'Italia ed è un ulteriore tassello della politica europea di esternalizzazione della gestione delle frontiere. Subito dopo la firma di questo accordo, paradossalmente, le partenze dalla Tunisia subiscono una impennata senza precedenti. Questo incremento delle partenze è in realtà dovuto, anche, ad un serio deterioramento della sicurezza per le persone in movimento presenti sul territorio tunisino.

Nel febbraio 2023, il Presidente tunisino, Kais Saied, rilascia una dichiarazione dai toni discriminatori che finisce per scatenare sentimenti razzisti esistenti in una certa parte della popolazione tunisina ed innescare così una spirale di attacchi violenti ed espulsioni collettive, spesso in pieno deserto.

Il 27 luglio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) dichiarano di essere "profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni disastrose dopo essere stati portati in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre i confini verso la Libia o l'Algeria. [...] Tragicamente, ci sono già notizie di perdite di vite umane tra il gruppo".

In un recente rapporto del luglio 2023, Human Rights Watch afferma che la Tunisia non è un luogo sicuro per la popolazione nera africana, che negli ultimi mesi è stata vittima di "pestaggi", "detenzioni arbitrarie" e "furti di denaro ed effetti personali" da parte delle autorità tunisine. Nelle stazioni di polizia, alcune vittime sono sottoposte a "scosse elettriche" e ad "arresti arbitrari basati sul colore della pelle". A questo riguardo, nell’agosto 2023 la Ocean Viking porta a termine diversi salvataggi di imbarcazioni partite dalla Tunisia: le testimonianze che abbiamo raccolto confermano le violazioni che lo stato tunisino perpetra nei confronti dei migranti, specialmente subsahariani.

Nel novembre 2023 la Ocean Viking è stata fermata per presunta violazione del "decreto Piantedosi". Dopo lo sbarco ad Ortona, avvenuto nella notte tra il 15 ed il 16 Novembre, le autorità italiane hanno ordinato 20 giorni di detenzione della Ocean Viking e inflitto a SOS MEDITERRANEE una multa di 3.300 euro per aver soccorso persone in pericolo nella zona SAR libica senza aspettare indicazioni dalle autorità locali. Il Capitano e la Coordinatrice delle Operazioni di Ricerca e Soccorso a bordo sono stati interrogati a lungo dalle autorità italiane in merito al secondo dei 3 salvataggi, che avrebbe comportato il ritardo all’arrivo al porto di Ortona. Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi: lasciare quei 34 naufraghi al loro destino in mezzo al mare sarebbe stato illegale, oltre che moralmente sbagliato.

Nel dicembre, la notte di capodanno, la storia si ripete: la Ocean Viking è nuovamente bloccata per presunta violazione del decreto. L'infrazione? Una minima deviazione della sua rotta, avvenuta al solo scopo di rendersi disponibile a prestare assistenza ad altre 70 persone in pericolo. Una variazione che comunque di fatto non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni verso il porto disegnato per lo sbarco.